Si parla sempre più di “umanizzazione delle cure”. Ma che cosa significa e perchè è importante?
Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha senza dubbio portato grandi vantaggi ma anche il pericolo di una crescente disumanizzazione. La scienza e la tecnologia diventano disumanizzanti quando gli individui sono ridotti ad oggetti, quando i pazienti non vengono ascoltati o neppure informati sui procedimenti sanitari. Il rischio è che la persona sia considerata un paziente con una malattia e non più una persona. Invece è soprattutto quando siamo ammalati che vorremmo essere trattati con più rispetto, più umanità, è soprattutto quando siamo feriti che vorremmo sentirci protetti e accuditi.
Eppure questo non sempre accade: pensiamo al sovraffollamento ospedaliero, al mancato trattamento del dolore, alla mancanza di spazi, alle lunghe liste di attesa, alla privacy violata, al cibo non adeguato in reparto.
Per questo si parla sempre più di “umanizzazione delle cure”. Ma che cosa significa? L’umanizzazione delle cure vuol dire occuparsi del paziente non solo dal punto di vista biologico, della malattia, ma anche da quello psicologico e relazionale. Umanizzare le cure significa rendere i luoghi di assistenza più sicuri, accoglienti e senza dolore.[1, 2] Significa curare il malato, non la malattia. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità parla della salute non solo come assenza di malattia ma come di “Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità“.
Come segnalato da “Cittadinanzattiva”, i problemi principali che i cittadini lamentano a proposito di umanizzazione sono stati l’incuria verso i pazienti (29,8%) e atteggiamenti sgarbati da parte degli operatori (26,9%). Questa alta percentuale di segnalazioni relative all’umanizzazione ci confermano quanto sia un valore importante che mette in chiaro la sensibilità dei cittadini su questo tema e la preparazione non sempre efficiente degli operatori sanitari, a tutti i livelli.[3]
Numerosi studi hanno dimostrato, anche sulla base di indagini dirette, che il modo in cui il paziente e i familiari vivono e percepiscono l’esperienza della malattia, è influenzato anche da altri fattori, oltre quelli sanitari, quali quelli della comunicazione e delle caratteristiche dell’ambiente fisico, con ricadute sugli stessi esiti clinici.[4] In un famoso esperimento due piccoli macachi vennero chiusi in una gabbia insieme a due peluche. Uno era un peluche di morbida stoffa e l’altro era una specie di sagoma di metallo fornita però di un biberon alla quale le scimmiette affamate si potevano attaccare per succhiare il latte. Si osservò che le scimmiette trascorrevano la maggior parte del tempo con il pupazzo di stoffa e si attaccavano alla sagoma metallica solo per poppare. Venne così dimostrato che la necessità di contatto fisico è un bisogno primario, indipendente dal soddisfacimento dei bisogni fisiologici.
Già a partire dal Patto per la salute 2014-2016[5] si è affermata sempre più in Italia la necessità di rispettare la volontà e la dignità della persona, di favorire la creazione di luoghi di cura accessibili e confortevoli, di promuovere relazioni umane fondate sull’accoglienza e l’empatia. Tale orientamento ha trovato conferma nella recente legge sul consenso informato[6] in cui si afferma che “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Stessi principi sono presenti nel nuovo codice deontologico delle professioni infermieristiche che afferma all’art. 4 che “Il tempo di relazione è tempo di cura”.[7]
E invece cosa succede nei nostri ospedali? Quanta importanza viene data alla persona? Quanta importanza viene data al fatto che quella persona possa mangiare dei cibi gustosi, possa restare in contatto con i propri cari, avendo ad esempio a disposizione degli spazi adatti? Quanta importanza viene data alla comunicazione col malato?
L’università dovrebbe agire di più sugli studenti, futuri professionisti sanitari, con programmi capaci di promuovere l’umanizzazione delle cure oltre le competenze solo “tecniche”. Eppure, nonostante esista un’ampia letteratura che testimonia i benefici legati all’introduzione di discipline umanistiche nei percorsi formativi dei professionisti della salute, in Italia si registra un forte ritardo rispetto alla loro introduzione quale parte integrante dei core curricula degli insegnamenti dei corsi di laurea di ambito sanitario (medici, infermieri, ostetriche, ecc.), soprattutto in comparazione a quanto accade ormai da decenni in altri contesti internazionali, quali ad esempio gli USA, il Canada, il Regno Unito e altri paesi dell’Europa continentale.[8]
Sono molte le iniziative che potrebbero essere adottate da parte delle direzioni ospedaliere per l’umanizzazione delle cure, per migliorare il contatto umano tra operatori sanitari e pazienti a cominciare dalla formazione del personale, dalla creazione di gruppi di lavoro all’interno dell’ospedale per l’individuazione e risoluzione di eventuali problematiche, dalla predisposizione di indicatori per verificare l’efficacia delle iniziative poste in atto.
Le condizioni per l’umanizzazione dell’assistenza ospedaliera non possono prescindere dalla necessità di creare adeguate condizioni di lavoro per il personale, come ad esempio un giusto numero di operatori sanitari in rapporto ai pazienti ricoverati. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
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BIBLIOGRAFIA
[1]Audizione del Ministro della Salute Livia Turco alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati. 2006
[2] Legge 15 marzo 2010, n.38 (Ospedale – territorio senza dolore)
[3] Cittadinanzattiva. XXIII Rapporto PiT Salute, 2020. Pag 5
[4] Ulrich, R. (1992), “How design impacts wellness”, in Healthcare Forum Journal, n. 35
[5] Patto per la salute 2014-2016. Art. 4
[6] Legge n. 219 del 22 dicembre 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Art. 1, comma 8
[7] FNOPI – “Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche“. 2019. Capo I, art. 4
[8] Vicarelli G., Giarelli G. (a cura di), “Libro Bianco. Il Servizio Sanitario Nazionale e la pandemia da Covid-19. Problemi e proposte”. FrancoAngeli editore, Milano 2021. Pagg. 111-112